Sono nato in questa casa e vi ho abitato la maggior parte dei miei 59 anni.
Quando ero piccolo questa era la finestra della camera dei miei genitori. Io vedevo solo nuvole bianche e scie di aerei e dicevo che la nostra casa era alta fino al cielo.
Se di notte avevo paura entravo nel lettone e mi sistemavo tra la mamma e il papà, vedevo le stelle fuori dalla finestra, che loro tenevano aperta, e chiedevo «è vero che quassù i cattivi non potrebbero mai arrivare?».
Solo se mio padre mi prendeva in braccio potevo vedere a sinistra il profilo della vecchia Carpi. Lui mi indicava una ad una tutte le sagome nere disegnate sul rosso del tramonto e mi insegnava a riconoscerle dalla forma. Il campanile di San Francesco, la cupola di San Nicolò, il Torrione degli Spagnoli con le sue merlature e pinnacoli, il campanile della Sagra con le cinque punte, la torre dell'orologio del Castello nella cui finestra si intravvedeva la campana, la torre del Passerino e l'alta cupola del Duomo che, da qui, sembrava molto più alta che non a vederla dalla piazza. A destra invece non c'era niente. La ferrovia aveva arginato l'espansione della città in quella direzione e si vedeva soltanto campagna e, in lontananza, nelle giornate più serene, le montagne.
Verso i sei anni superai in altezza il davanzale e ogni sera, appena la mamma mi diceva che erano le sette e quaranta, correvo alla finestra della sua camera per vedere arrivare il treno che riportava a casa il mio papà che lavorava a Modena. Spesso il treno era in ritardo, ma appena arrivava lasciavo la finestra per correre alla porta dalla quale, dopo tre minuti, lui sarebbe puntualmente entrato. Quando avevo otto anni iniziarono a costruire, di fronte al nostro, un palazzo alto quasi uguale. Di lì a poco non fu più possibile vedere le montagne né la ferrovia ma io la sera continuavo a guardare da questa finestra come se non farlo avesse potuto ritardare il ritorno di papà. Ricordo che era il giorno del mio decimo compleanno quando incontrai per la prima volta, nell'allineamento della finestra con quella del nuovo palazzo, la bambina con le lunghe trecce nere.
Il giorno che la sposai, vent'anni dopo, me ne andai per la prima volta da questa casa e quando ci sono tornato avevo un bambino in braccio, il nostro secondo figlio e la prima cosa che feci fu sollevarlo davanti a questa finestra per mostrare a lui e a suo fratello, che già ci arrivava da solo, il punto esatto in cui il papà e la mamma si erano visti per la prima volta e raccontare di nuovo una delle loro storie preferite.
Anche nella nostra nuova casa, questa era rimasta la camera matrimoniale.
La notte Angela mi sussurrava «chiudi la finestra», mentre allungava una mano sotto le coperte e io capivo che voleva fare l'amore. Il palazzo di fronte era abbastanza vicino perché si potesse facilmente scorgere cosa succedeva dentro le case.
Negli ultimi due anni succedeva che di giorno Angela sussurrasse «mi chiudi la finestra». E quella frase aveva un suono e un significato completamente diverso. La luce le dava fastidio da quando il tumore aveva raggiunto il cervello. E quell'unica parola in più, quel "mi", racchiudeva in sé l'esito di tutta la sua lunga malattia. Rappresentava la sua incapacità ad alzarsi dal letto, la sua completa dipendenza da me.
Questa stanza è troppo vuota ora che Angela non c'è più.
Se guardo adesso da questa finestra, indietro verso la stanza, vedo il letto vuoto e la sedia che ho usato per salire sul davanzale.
E mi viene in mente ancora la mia mamma che terrorizzata mi ripeteva che non sarei mai dovuto salire su una sedia per guardare fuori dalla finestra. Perché potevo cadere. E a cadere da così in alto sarei morto di sicuro.
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2 anni fa
Mi piace il tuo stile con colpo di scena finale e anche l'ironia maschile che utilizzate tu e Maurizio. Scrivi bene ed è estremamente piacevole la lettura.
RispondiEliminaElisa
Grazie Elisa. Adesso però che io e Mauri abbiamo rotto il ghiaccio tocca a te farci leggere qualcosa.
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